Quando il divenire vita in noi si fa pura equivalenza

“Sia benedetto il nome di Dio di secolo in secolo,

perché a lui appartengono la sapienza e la potenza.”


(Dn 2, 20)

È spazio, coeso e ivi a medesimi noi congiuntosi, raggiunto da una molteplicità di meta-tempi che stanchi di superfici ad induzione quantiche flettono il sostanziarsi loro informe con superiore intelletto, questa parola dal perimetrico spiro vettoriale e binario che illividisce ogni dinamica eterogenea, a spirale, nell’estensione del caduco suono percepibile dall’udito svernato dalla sensazionalità dei terreni fenomeni, in piene linee amorfe smosse da un oramai finito sfarfallio di punteggiature impraticabili per un re-alfabetismo coassiale e prossimo, mai antico né nuovo, vertebrato tra lingua e chiodo in ogni bocca impreparata alla devoluzione storica della puerpera memoria nel coscienzioso barricarsi del carneo fattore in disarmate fattispecie d’uomo, quel primo e ultimo quoziente di luce insuperata che ci previene con la sua struttura d’oltre cosmo, nel parallelo bacio del conoscibile con l’insostenibile, quando il divenire vita in noi si fa pura equivalenza, semplicità esattissima e infinita. Un vagito, l’autore di un sonico sogno/segno che trionfa in quattro re-interpretazioni a post varicato nome, per l’in-intervallata intro delle chiavi presagite sul pentagramma elementare del rivelante mistero, audizione dissigillata dal prodigioso pre-istante nell’immutabile moto del perpetuo suo essere prodigio.

(05/01/2024)