«Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì.»
(Mc 1, 40-42)
La perplessità gli scompensava la visuale limpida dell’altrui volto. Tradito, all’apparenza, da una vita che lo aveva visto permeato dalla pecca più elevata, l’unica sua nozione di pianto convalidato, derivante dal liquefacente dolore, proveniva esclusivamente dalla lebbra dell’anima. E proprio quest’ultima, nelle occorrenze legate all’avvenuto contatto con i disagi di altre consolidanti masse di pensiero e di rabbia, gridava del suo stato di contaminazione, umiliandosi fino al baratro dell’esistenza pur di non venir meno a quell’atto meraviglioso che la vita umana le aveva riservato. La creatura, di per sé, provava la sopraffazione della carne per la pelle sciolta come la cera che, bruciando le forme, macchiava il respiro dell’essere nel canto infero degli elementi. Ma giunse il giorno propizio, predetto, col quale l’anima avrebbe vissuto il suo distacco definitivo da una porzione di male che in troppi avevano mal giudicato, infamando l’intero atto creativo che tutto principiò. Ebbe, da parte sua, il dono più potente: la fede. In virtù di questa egli, il tradito all’apparenza, senza che la tregua gli sfigurasse il corpo, quando vide che si stava compiendo l’Uomo, non esitò a spegnere quella forma che andava bruciando, ed asciugando la cera dalle ossa cariate che inverno piovendo l’altrui rabbia corrompeva, con elementi rimarginati e l’essere del respiro ottenne, giustificato in infinita quantità, la visuale lucente di Colui che volle e poté.
(15/01/2021)