Colui che si è rivelato ai nostri antenati secondo la promessa di Dio Padre Onnipotente trasmessa loro per opera di angeli e profeti, già dai tempi antichi, non tarderà, in questi giorni che non ci appartengono, a manifestarci con segni e prodigi la cosiddetta Epifania del suo secondo ed ultimo avvento in terra. Fu detto: non passerà questa generazione prima che tutto queste cose siano avvenute (Mt 24, 34) e in un altro passo della Scrittura si legge ancora: O generazione incredula e perversa. Fino a quando sarò con voi e dovrò sopportarvi? (Mt 17, 17). Aldilà dell’apparato escatologico entro il quale dimorano tali minacce ed aleggia, in funzione di un pari rapporto di giustizia e di sovranità della parola in sé medesima, la promessa, si frappone a tutto il mistero della fede in Cristo la certezza della redenzione per opera dello stesso Figlio Unigenito, l’Unto di Dio. Per poter accedere alla genealogia, se così possiamo definire un rapporto tra simbolismo e scrittura, di ogni carattere, trattino o iota (se pensiamo ad un riferimento meramente legislativo ed extra-biblico), dobbiamo vegliare e non titubare, aspergere e non emergere, diminuire e non crescere, temere e non abiurare. Ed eccoci inseriti, una volta tra tutte, dinanzi ad un paradigma, ad una sensazionale ricerca semantica che abnega la sua teoria nell’esercizio avverso della medesima pratica. E ancora nella Scrittura. Sempre nel Vangelo di Matteo, Gesù si esprime così: Razza di vipere (Mt 12, 34; 23, 33). È chiaro come del tutto singolare risulta l’accostamento di razza (che potremmo generosamente tradurre col termine generazione) alla parola vipere (che potremmo generosamente tradurre col termine diavoli). Così come nel Vangelo di Luca, invero, troviamo la medesima definizione: Razza di vipere (Lc 3, 7) espressione usata da Giovanni il Battista, precursore del Verbo di Dio incarnato e fattosi uomo come noi, in mezzo a noi. Torniamo all’origine, alla genesi non solo di questa esortazione che non combatte nessuna ideologia/teologia né prevede la presenza in se di un apparato critico dal sommario pregiudizievole. La generazione, dunque. A quale teoria dell’uomo prigionato, in quanto tale, in balìa degli anni, e a quanti anni, milioni, miliardi? La razza, la specie. Ciò che sta per avvenire ha un carattere che oltrepassa qualsiasi sostanza temporale poiché è incontestabile che anche se il tempo non è posseduto da sostanza è altresì posseduto dall’Unità, dalla Monade Perfetta, dalla Comunione ultima della Cronaca Celeste. È questa la partitura definitiva che l’uomo, in quanto certamente sempre figlio, deve rimettere alla sua ragione, alla sua memoria storica, alla sua coscienza prim’ancora e, dunque, al suo cuore, precursore di un avvento che nasconde in sé la formula eccezionale dell’avvenuto. Nessuno si senta escluso dalla Generazione né separato, o peggio ancora di-staccato, poiché l’uomo è il fautore della sua salvezza o della sua condanna mentre il Signore Dio è il creatore della nostra salvezza. O della nostra condanna. L’uomo dev’essere la Nazione di Dio Padre Onnipotente. Già, la Nazione. Che forse sia la chiave di lettura, questa, per assolverci da quel giudizio antico cui siamo stati sottoposti a causa della nostra malvagità archetipica connessa con la figura non solo simbolica del diavolo? E quale è quella Nazione che non possiede un popolo? Ecco. Il popolo, la sposa ormai pronta per essere rivestita di purezza e di verginità con le mani del suo stesso Amato il quale si è servito degli uomini fino a servirli. E questo è il mistero d’amore. Il mistero più grande.
(16/09/2022)