L’affanno cerca i nostri sguardi
e fugge via.
Quale migliore ansia
quella di stringere
l’epoca di questi corpi
che dilatano le nostre anime
e ci appartengono?
Forse la libertà
che l’uomo teme
non è altro
che l’incarnazione
della sua perduta giovinezza,
angoscia di questo mondo
e non di altri.
E perché sia riversata
nel suo cuore
un’abbondante mistura
di speranza e di certezza
noi viviamo
nell’equità del giorno,
quando nulla d’irreversibile
può penetrare
tra i confini del credersi
soli o congiunti
in quell’afflato
che alla totalità del sentimento
ci rende compagni, simili.
Oh, premura delle forme!
Se pure stessimo nel silenzio
più lontano, ecco.
L’indiscussa sazietà delle parole
che ci appartengono
provocherebbe verità mai scisse
tra orbite
echeggiate di armonie,
di fenomeni.
Tu vuoi la severità
che soltanto
alla bellezza appartiene.
La approvi.
La invochi.
Ma non tarderà,
sul tuo sentiero,
a mostrarti la sua luce
poiché i tuoi stessi passi
conducono ad essa.
E seguendo la tua via
la pace dominante nei miei occhi
si aggrazia
della esaltazione piena
di ogni nostro bacio futuro
che in essi
ha già trovato degna dimora.
Oh, avvento delle visioni!
Quale paura,
quale più grande timore
appartiene al mondo, allora?
Forse proprio noi,
che siamo
la sua rinnovata giovinezza
nell’incarnazione definitiva
di libere azzurrità?
Tremori di vigilie,
di nuove aurore,
di mani che si stringono
ad altre mani.
E nudità dei fiori
nei prodigi di quel silenzio
che tanta sete di noi
schiude e acclude al creato.
(25/03/2024)