All’equinozio del bruno respiro

(Lc 16, 19-31)

“Ah, questa fame che il cuore dilania e astringe il seno! Ero così attaccato alla miseria, addizione di una povertà che si proclamava beata tra le mie labbra, che anche il frastuono del tuono mi recava consolazione, pace tra le mie numerose ferite, requie nella mia condizione di emarginato, di non compianto ai bordi del disumano precipizio. Eppure, non avendo alcuna colpa, io ero considerato dalla gran parte delle persone il castigato, il percosso, l’allontanato da qualsiasi speranza di salvezza. Oh, le mie piaghe. Quanto, quanto il mio corpo premeva sul mio animo e la mia bocca, lasciva di bene, mi faceva proclamare con sommessa voce: ho fame. Già. La fame di un popolo in preghiera sembrava il mio grido silente, un lamento senza lacrime poiché di lacrime soltanto si cibava ormai il mio spirito. Venne il tempo, così, delle mie piaghe. E topi, e cani si allettavano in esse ed io lasciavo loro la porzione quotidiana della mia angoscia, del mio soave dolore, di una impercepita morte cerebrale. Ero all’equinozio del bruno respiro, lì dove la vita viene meno e nemmeno il nome, il nome con cui mia madre mi aveva dato al mondo, io osavo ricordare. Tu mi hai guardato sul marciapiede della esistenza e non mi hai curato e, anzi, hai puntato contro di me la tua mano prima di affondarla nelle mie piaghe. Eppure la giustizia, che da sempre prova i suoi figli, si presentò a te come una reliquia di spine senza rose mutilata nel tuo fiato errabondo, ormai, consapevole del male passato, del giudizio presente precursore di un futuro senza morte e pregno solo di quella fame, di quella fame nelle tue nasciture piaghe ove non la mano mia sarebbe affondata ma quella degli sciacalli, dei topi ingordi e dei tuoi simili nel latrato dei più infami cani. E non rimpiangi, non rimpiangi oggi i tuoi lauti banchetti, le orge depravate che il tuo perverso cuore agli altri comandava. No. Hai compassione, poni compassione innanzi alla tua sete di condannato, interponendola tra terra e cielo a favore di chi, esattamente come te, si è ostinato nell’omicidio dei corpi e delle anime. Maledetto ancor di più, maledetto senza tregua, poiché nella carne hai posto il tuo compiacimento e nell’uomo hai confidato. E avrai fame, avrai di quella fame che non lo stomaco insegna alla bocca il dovere di ben masticare bensì d’immergere la tua lingua nella perennità delle tue piaghe. E il mio muto lamento, le mie generate lacrime saranno per te l’unica fonte di ristoro per un corpo privato di qualsiasi forma di intelligenza, ad amputata anima.”

Chi ha orecchi per intendere, intenda.

(17/03/2022)