Cerimoniando la dimora della parola

Lampada per i miei passi è la tua parola,

luce sul mio cammino.
(Sal 118, 105)

In quel tempo, mentre mi trovavo dove più non sono, nonostante fossi con alla luce gli occhi e la fissità dei cieli oltre le azzurrità del mare, la parola scese su di me. Mi fu chiesto di non allegrarmi, per quanto il mio cuore fosse di gioia non inviso e l’anima, dal suo catartico azimut, docilmente elevata. E non mi allegrai. Poi mi fu chiesto di non lasciar riposare, come mio consueto in ultimo, entro me, l’appetito. E mangiai, stretto ad un consunto tavolo, gli amari pianti di chi non voleva esser più consolato. Al palato la lingua inchiodava il suo ultimo bacio ad una terra che, con ogni aggraziata delicatezza, io ritenni, nel preambolo insapore del più bollente attimo, anzitutto di ben dimenticare. E così ben dimenticai la terra, schiodato nel bacio di un palato che di lì a poco avrebbe lasciato intendere forme di linguaggi astrusi a distratte orecchie in sepolcri sbiancati. L’infinito respiro spalancò improvviso, nella nuova visione che di umane spoglie lacerava ogni storia, la sua traiettoria più fedele, l’espansa sommità nel suo moto non identificato, l’implosa. Fu quel frangente a lacerare l’estremità destra del mio petto, poco sopra le ormai diafane mie costole. Non l’abbandono esclamò la mia snaturata ragione, bensì fu la conoscenza a istruire di silenzio i semi dei fenomeni emotivi più attempati i quali, nell’andirivieni di primeve seti alimentate dalle felicità intuitive, ottemperarono la iniziazione del mio divenire avvenuto con immani regole di giudizio. Era il giorno trentuno del decimo mese dell’anno ventuno della duemillesima età. L’ora si slegava da qualsiasi atavica riflessione mentre mi trovavo dove più non sono, nonostante io fossi con alla luce gli occhi e la fissità dei cieli oltre le azzurrità dei mari, cerimoniando la dimora della parola scesa su di me.

(31/10/2021)