D’essere in drammaticità: normalità desueta,
reietta, quasi, nell’ora scagliata così, sfusa,
verso la vetta più blasfema e agonizzante aria
per la ripida fusione dell’elemento insonne.
Ed è negli scherni alla natura come questi,
spazi dalla ignominia perimetrale cordogliante,
che il costato della desolazione, a defraudato siero,
spacca la sua decima nell’ormai tutto profanato.
Ma questo scempio coopererà col suo limite,
una barriera dalla matrice albeggiante oltre la quale
solo una riviera mossa da innocenti sospiri
lascerà solcare sopra di sé il volo sospeso del mare.
Che siamo io o noi, tu e il mio respiro,
non conta più. È l’esperienza della parola ultimata.
Noi saremo ciò che già siamo,
poiché fummo nudi e veri nell’occhio del cielo,
agonizzanti e vittoriosi nella prova e nel desiderio.
Cosa importa se il colore del nuovo
non smuove queste palpebre, dimmi,
cobalto del mio sguardo, pupilla del mio volto?
E proprio perché nessuno t’ha mai veduta,
quando l’amore ergeva nei nostri petti un solo tabernacolo
a sigillare l’unione verticale nell’alloro delle anime,
che nella grazia di un corpo alla passione ormai immolato
noi siamo divenuti e nulla e tutto, principio e fine,
mia indelebile compagna, o mia stagione più bella,
di rosea plenitudine che il mio immutato mutare sostieni
nel giardino in diffusione sulla frequenza dei momenti.