Ebbi ad imbracciare un fiore anch’io
quando divenni cenere,
cenere da giardino per la sua chiamata.
La terra bruciava nei miei occhi
ed io null’altro, null’altro desideravo
che carezzarla con lacrime da frontiera,
ma la trincea scavava solo sogni
dentro le mie più ingenue speranze.
Oltre, ben oltre le barricate.
E io le andavo osservando.
Vi andavo come i miei giorni,
proseguiti da aurore senza colori,
e con innumerevoli notti orfane di parole,
tenebre prive di un atteso tramonto.
Cadde dai miei pensieri un’idea materna,
così come piove la cenere da giardino,
e subito sanguinò tempi di pace
su di una terra mai stata.
Ebbi ad imbracciare un fiore anch’io.
Cantava di tanto in tanto col mio dolore
e la sua voce non possedeva pietà.
Ma la trincea scavava solo sogni
dietro le mie più ingenue speranze
finché orgoglio e fierezza mi lasciarono cadere,
vittima di una illusione spoglia di premura
ed erede di un sentimento vuoto e incolmabile.
Ero io, ero sempre lo stesso.
Ma fu ormai troppo tardi.
L’innocenza mi aveva smarrito
quando piovvi come la cenere,
cenere da giardino per la sua chiamata.
Così volli cantare anch’io,
ma fui imbracciato dalla paura
e con essa fui braccato dall’amore,
dall’amore per la mia patria.
Bruciò la terra nei miei occhi
ed io null’altro piansi,
null’altro vidi,
null’altro cantai.
Cessarono i giorni,
quei giorni spaventosi
proseguiti da aurore senza colori,
e con essi terminarono anche
le innumerevoli notti orfane di parole.
Notti che segretamente amai
perché divenute il mio nuovo paese stellato,
frontiera intima di un fiorito albore
e di quella carezza luminosa che,
sul mio dimenticato sorriso,
ha desiderato teneramente librarsi
per baciarmi d’un bacio che non è più tramontato.
(09/10/2024)