Ha i suoi tragitti il silenzio
che mai sconfina tra di noi.
Non importa
quanto gli restiamo distaccati
o daccanto,
esso fa sì
che provvediamo
alla maturazione delle anime,
come fossero acini da svezzare
tra le membra vive
di una sola vigna.
È vero.
Il desiderio che ci avvince
abita una volontà
che trascende
i nostri più intimi pensieri,
la nostra stessa umana natura.
Come restare uniti, allora,
e come divenire altro
se non andando entrambi
ad abbracciare
il nucleo sensibile
di quel pathos
che ci dirige verso la parola,
quella parola che
– anche per nostro gaudio –
come persona di più persone
ci sorride,
ci consiste,
ci addimora?
Se crollassero
le fondamenta dei mondi
noi sappiamo,
fin troppo bene,
che i cieli
andrebbero a distendersi
sulle apnee catartiche
derivanti dai flutti moto-marini.
Tutto questo, eppure,
è ciò che l’uomo
va patteggiando con se stesso,
con il suo atteggiamento amorale
e con l’ausilio irresponsabile
di una proto scienza
che diritti nega
puranche alla scienza.
Ci resta la certezza,
che non è figlia
della più magra tra le consolazioni,
che il tempo
è una specie di onda magnetica,
luminescente,
e che nel cuore di questa terra
cesserà di estendersi
nel divenire ultimo della semprità.
Ecco.
Non lasciamo alla esaltazione
l’esaltazione,
e rendiamo a ogni disperazione
la speranza.
Poiché l’attesa, mai vana,
lascerà completo vissuto
alle nostre anime
per quella dimensione escatologica
entro la quale noi, i viventi,
resteremo uniti e sereni
come acini da svezzare
tra le membra vive
di una sola vigna.
E saremo felicemente un oggi,
un oggi coronato già
dalla sostanza ineffabile
che ci rende amore nella verità,
noi che siamo stati
e saremo fedeli
alla sua compenetrante visione
carneo-spirituale
che luogo tutto
agli esseri arreca pace.
(13/06/2024)