Mi fu negata la vita, nelle sue sedimentazioni contemporanee.
Sembrava che l’esistenza fosse nient’altro che
soffi di polvere
in balìa di coloro che sono considerati
gli esecutori provvisori del mondo,
ai quali gli uomini hanno destinato
le generalità dell’estinzione terrestre.
Distrazione da adulti nel tempo opportuno
e giochi, dunque,
giochi da mostrare non solo ai bambini
nelle insolite, drammatiche feste.
Io. Uno dei pochi, tanti di uno.
Comparve il giorno,
e assieme ad esso il momento antecedente
al macero della furtiva ragione,
della disintegrazione preparata per addomesticate coscienze,
le figlie atroci dell’epoca bella.
Oh, i novelli rami delle sensazioni snudate
dalle sonorità dei mandorli e dei gigli:
fui introiettato nella didascalia dei loro sogni
ed ebbi a contestare il metodo, l’arsura di potere,
l’oppressione, la flagellazione dei diritti universali,
la dignità perduta.
E vidi stagno e rame, ferro e argento,
catrame e cemento,
ed una infinità di api e di cavallette
che portavano per aria e per terra non fatalità ma distruzione, e sette sorelle che imprecavano, verso i loro primogeniti, per le calamità occorse ai quattro regni dei loro concubini.
Nessuno credette a tutto ciò che di lì a poco avrei riferito nelle sedimentazioni contemporanee di una realtà fasulla e obliqua, persa tra i fasti dell’osceno e della impreparazione globale verso una scienza salvifica, tra coloro che avrebbero dovuto semplicemente credere. Eppure degna era la parola. Degna era la parola di ascolto e di effettiva gratitudine per la gratuità con la quale la stessa sarebbe emersa non da colui che labbra non più aveva nelle segmentazioni reali, bensì da Colui che cielo astringe con la lingua, che uragani spinge con il soffio puro delle sue narici, e che tuoni, lampi, folgori ha per colore degli occhi, quei diamantini luoghi ove il sangue scorre come piene di fiumi straripanti amore e ira, ira e amore nell’amplesso tremebondo per l’umanità.
La stanchezza si sradicò dai mandorli cerulei ed io possedetti le chiavi temporanee dell’urna dalle cinque piaghe.
Ed ecco. Un uomo, vestito nella mia trascendenza
e con una pietra isoscele tra le sue tre dita,
scagliò un urlo senza moto e senza tono
discrepando la sonorità degli elementi,
trasfigurando se stesso in una luminosità inaudita
nella pelle di quattro esseri diversi e simili, simili e diversi.
La sua lingua cominciò a dividere il marmo tra le dita,
e la forma cambiò da isoscele ad equilatero. Perfetto.
Io vidi e stentai nel respiro; ormai ero il sigillo delle piaghe posto nell’urna da me poco prima aperta con le chiavi della temporaneità: sei, questo il numero con faccia non umana che stava per proclamare lettera per lettera il suo femminile nome. L’intelletto non cadde, i miei sensi sbiadirono, mi stavo allontanando dalle quattro ali che in un tempo e mezzo avevano dato parola al mio volto e verità al mondo. Riebbi così la vita, custodita nel triplice, materno seno di mio Padre.
(08/11/2021)