Il vaso e il catino
Nel giorno ventisettesimo del quarto mese del ventiduesimo anno mi fu chiesto di parlare in tali termini a tutti coloro che si trovavano nelle condizioni di porgere l’ascolto asciutto e indaffarato al richiamo del Signore. Ed io lo feci, unito in tutto alla sua presenza e ovunque colmo della sua volontà, plasmato come un vaso incolore, grezzo nel suo stato primitivo, e bollente come un ettolitro di acqua mescolata a quattro pugni di sabbia colante versata nel catino utilizzato per le abluzioni degli arti definiti inferiori e dunque ultimi. Presi la ragione infima degli oppressori non solo dei popoli e vangai per un mattino e un giorno a metà sulle metastasi della terra più malformata delle nazioni. Non riuscii, durante quei frangenti, a tenere l’occhio sinistro aperto. Sul viso, frattanto, un fenomeno doloroso e scevro da qualsiasi comprensione per la mia coscienza mi costrinse a battere le ciglia dell’occhio destro al medesimo tempo del passare dei secondi, a tre a tre. Fui le nozioni di lutto indossate da tutti quei libri che avevano perso l’indice per le loro basi e che, migrando da ettaro ad ettaro senza la propria storia, s’impossessarono dei miei sentimenti e del mio sapere sino al monte tiepido del mio agonizzante cuore. Divenni il rigurgito di quella parola detta ma non masticata, di quelle lettere scritte ma non assaporate. Dalle mie labbra limpide si ergeva il nome di tutti quei mari ove, a poco a poco, nel sofisticato addestramento dei delfini e degli squali, si sarebbe non procrastinata la liturgia delle lapidi sospese nel baratro dell’innocenza, tra la permanente vigilanza dei primi numeri e la catalessi delle lettere ultime. Il Signore. Il Signore principiò dai miei occhi, provati fino alla totale cecità dei secondi, la data odierna dal computo delle mie età affinché io fossi vaso per la sepoltura nelle meridiane dei luoghi più degni dove ricapitolare in vita ogni sua vittoria.
(27/04/2022)