Introiettati in qua delle vostre condotte illusorie, come se a un labbro si domandasse di tingersi nel fiele e all’altro di mordere la vendetta fuggitiva di un bacio, capitoliamo i nostri accentuati sensi nel fango che da tempo confondete col più pregiato nardo, o coi ramoscelli di mirto che sventolate ignari fin dentro le vostre narici, a soprasseduto domani. E non la stanchezza coglie il germoglio della ribellione che distingue la rapacità della generazione a cui prestate il nome, né la centralità sottile di una ipocrisia che da sempre vi appartiene e che mai, giammai tentate di celare. In verità, ci possediamo per un atto di prolungata clemenza, derivante da chi ci vuole estranei, separati dal secolo e dal mondo. Ma l’invidia e la superbia sogliono provvedere ai desideri degli uomini affinché si dia esordio e compimento ad ogni loro tornaconto. Eppure, non noi abbiamo chiesto di voi. Non noi abbiamo seppellito i nostri anni tra le vostre putride scienze da mercato. Introiettati in qua delle vostre condotte illusorie, al secolo moriamo e al mondo, condannando i vostri paralizzati sentimenti nei lager dei più vergognosi affari. Labbro intinto di fiele, labbro sospeso tra terra e cielo mentre morde, adesso, il bacio fuggitivo dell’abbandono, asperso già della sua fine col ramo sacro del domani. E oltre le porte della notte l’inverno è trascorso. Una madre nutre di amore i suoi sette figli che credeva scomparsi. Il nostro nome rinasce dall’alto. E tutto principia, tutto principia e si compie, tra l’arcobaleno e il canto.
(18/03/2025)