(Is 5,1-7; Sal 79; Mt 21,28-32; Lc 20,9-18;)
Devastata,
è forse questo il tuo nome,
ancella della mia ancella,
ove la terra nei suoi sepolcri sbanda
e il cielo più non spande
il delicato frutto destinato ai tuoi padri
di stagione in stagione?
Se tu ritornassi a me
con il cuore non più rabbuiato
e ti ricordassi della mia compassione
potrei dimenticare i tuoi atti mendaci,
le tue colpe, tutte le tue millanterie,
opera delle tue ingorde libagioni,
dimmi, potrei forse dimenticare?
Io mando, ho mandato
e manderò,
a te che nemmeno per te stessa
hai più riguardo,
i servi,
e i servi dei miei servi,
poiché la tua vigna m’appartiene.
Loro ti parleranno,
ma tu non li ascolterai.
Loro guarderanno le tue nefandezze,
ma tu non ne proverai vergogna.
Loro taceranno innanzi alla morte,
che tu perpetrerai contro di essi.
Ma non li vincerai.
Ecco.
Io manderò mio figlio
e tu dimenticherai che io sono un Dio geloso.
Ti parlerà e non lo ascolterai,
egli avrà riguardo per le tue nudità
ma tu non proverai pudore,
come un agnello si lascerà condurre, infine,
innanzi a te, ultima tosatrice della sua passione.
Quale amore nutre un pastore
per il suo gregge, quale porta spalancata
troveranno i suoi agnellini
e in quale via saranno essi condotti
ad uno ad uno sulle sue possenti spalle
con la dolcezza di un padre,
così il mio germoglio avrà il potere,
il diritto e la giustizia
di devastare il devastato
e donare la mia vigna
a quelle mie piccole creature
fedeli nel poco e nel molto,
figlie del mio stesso figlio,
brina della mia stessa terra,
rugiada del mio unico fiore.
Ma guai a te, guai a te
che hai disperso il mio gregge
serrando la mia porta e sbarrando la mia via.
Ecco. La mia porta cadrà sui tuoi fianchi,
il mio gregge si ciberà dei tuoi leoni
e sarai condotta davanti ai tuoi figli
per essere giudicata assieme ai tuoi padri.
Poiché la mia storia è il mio primo frutto
e la mia via non è mai stata la tua.
(11/03/2021)