C’era sempre qualcosa che stringeva la mia poco edotta sensibilità, quel nodo alla gola che tanti avrebbero voluto provare e che in verità mai provarono. Molti presenti mi schiaffeggiarono il viso, una tempesta di tempi e moti devastanti che nemmeno io potevo presagire. La collina era colma di persone, gente perlopiù inferma, qualche curioso, infine i nemici di sempre a cavalcare lo sputo dello stesso riso loro. Certo che saremmo restati soli, non fu affatto così. I cinquemila uomini circa che si distesero innanzi a me come la moltitudine eletta trascinarono il mio pensiero verso la grazia inversa che di lì a poco si sarebbe manifestata. Infatti, la stanchezza che pervadeva dapprima il mio essere la proiettai su quella massa di persone che forse neanche avvertivano quella spossatezza e anzitutto la fame, la sete, dimenticando la scuola dalla quale provenivo per la quale cibato dalla Parola non avrei più dovuto patire per l’appunto di tale fame, di quella spessa sete. Con noi c’era un ragazzo che aveva forse cinque pani e qualche pesciolino. Facemmo come ci comandò e dalle mie mani, da quella cesta, non mi stancai di sfamare, assieme ai miei compagni, le persone che a gruppi di cinquanta si erano seduti per attendere il cibo, la manna donata in pace dall’eredità dei misteri. La sazietà pervase finanche gli occhi dei nostri commensali. I nostri invece, di occhi, rimasero chiusi dinanzi ai dodici canestri di pane avanzati e delle sette sporte sovrabbondate nell’essere spezzati. Lo confondemmo con il lievito dei farisei e di Erode, resi ciechi e sordi affinché si adempisse la Scrittura. Il cieco guarito a Betsàida fu l’unico segno che meritammo. Ed io, di lì a poco, confessai la mia professione di fede al Cristo.
(18/06/2020)