(Ez 3; Is 53;)
Annuendo e ammansito bevvi e mangiai, così come mi fu ordinato. Presso la fonte della vita io non ero più. Ero nel seno, nel pieno belato dell’agnello, col miele ancora tiepido che dalle mie labbra scendeva solidificandosi nella carne della parola, bollente opera che nemmeno il vetro avrebbe potuto limare, né la pietra più dura scalfire. E masticai ancora, col fragore sulle spalle e accecato dalla folgore, quel rotolo che avrei rilegato, a mia insaputa, con la saliva dell’ascolto.
Non a gente dalla lingua misconosciuta, né a popoli che una lingua non nutrivano affatto, il mio incarico si sarebbe dovuto adempiere, bensì a una genia di ribelli dalla dura cervice e dall’ascolto inutile. Discepoli della discordia e del male, avrei dovuto condurli nel belato in cui ancora il mio verbo posava riposando nello splendore di un buio ripido e abbagliante, curva stretta in una salita dalla percezione immobile. Prima però il disprezzo avrei conosciuto, avrei subito la condanna delle ossa, del palato, della lingua, della nudità, della vergogna, del castigo, dell’ignominia, del silenzio, delle tenebre, del distacco, del dolore, dell’infamia.
Legato in me stesso non una parola né un gesto di ribellione, segni amorfi erano solo l’espressione del mio volto, dalla piena del male deturpato.
Inviato agli inviati, figlio dei figli e padre del padre, col cielo nel cielo e l’alfabeto tra le dita dispiegai la bontà della bontà, preparata nel principio per il principio. Chi avrei dovuto salvare, chi salvato avrebbe dovuto leggere il rotolo che dentro mi nutriva il verme di un’empietà che solo il miele, nel seno del belato, poteva lasciarmi librare tra le madri del mio stesso caos, dei miei padri, dei miei figli, io che del caos ero il caos, del belato ero il seno illibato, dei miei padri ero il padre, come il signore disse al mio signore così dei figli ero mio figlio e infine delle tre madri la madre che veniva sopra, sotto, guardando prima, dopo. Era il giorno venticinque che stava per guardare se stesso prima di scoccare l’arco verso il mese nuovo del passaggio, nell’anno dal doppio riguardo, nel numero pari che gira solo su se stesso, e verso i parenti tutti deportati da sempre, finché nacque il conato del vivere retrocesso a larva del creato per opera del principe delle larve. Costui, abbandonato perfino dalle zecche, sarà presto annoverato dal nessuno, quando coloro che avranno ascoltato l’inviato agli inviati saranno belanti e coloro che non avranno inteso pur intendendo saranno maledetti nel loro ultimo verso, poiché la parola terrà sospesa con ogni sua lettera più del cielo, più della terra, più del cosmo, più dell’intervallo e della pausa del pensiero che nacque per creare prima di nascere e dare vita al cielo, alla terra, al cosmo, nell’intervallo e la pausa del giorno e della notte, alla vigilia del riposo.
Il fiume dove mi ero accasciato stava straripando quando aprii gli occhi e, lasciato il fiato per il fiato, vidi le ruote fortificate. Con aquile al posto degli occhi la mia missione fu nuova e in quel nuovo mi fu domandato di riposare, e riposando io lo domandai.
(25/05/2020)