Nell’undicesimo giorno del secondo mese del ventiduesimo anno del ventesimo secolo, mentre osservavo gemere una coppia di colombe tra terra e aria e udivo i loro rumorosi sguardi, mi fu rivolta dalla bocca che credevo fosse intrisa del mio volto una parola dall’aspetto femminile quando ecco, il terribile e l’inaspettato mi stupirono fin dentro il midollo dell’idea madre principiante nei rivoli asciutti di un’anima destinata a spegnere nel fuoco le fiamme provenienti dallo stagno insepolto della perdizione dove il pianto mescolato al duplice lamento ergeva, come una specie mostruosa di bestia alluvionata tra dorso e zampe, il suo corruttibile piacere dalla immonda pupilla slavata con una moltitudine di ciglia che versava putredine, dalla sua duplice prospettiva orizzontale, sullo zolfo presente ai margini dell’occhio unico posseduto dal fiato colorato dal numero imperfetto e replicante, replicato, che fino a quel momento non aveva cessato di ridere sguaiatamente nella scatola cranica di molti uomini prede, così, di un morbo allucinato dall’apnea di alcuna pace, nel riverbero del nessun ricordo. Mentre osservavo il vano digrignare di un’enormità di denti che cariavano le membra livide di chi li possedeva, ecco che fui elevato dal mio tempo attuale a quello più potente, puro e sapiente. Il mio corpo non aveva peso e non necessitavo di respiro poiché il cuore che stringevo tra le mani non solo pulsava nella mia futura vita ma componeva e scomponeva, con la dozzina della miriade celeste congiunta alla prima moltitudine degli angeli, il nome inguardabile, inascoltabile, indicibile. Mi fu detto dalle due colombe che avevo veduto tra terra e aria gemere nei loro rumorosi sguardi di unirmi a quel nome poiché ero la compagna, l’innamorata e la sposa. E la mia voce fu amen.
(11/02/2022)