Prima che il tempo abbia i tempi e luogo il nuovo
Il cavallo ha imparato
a guardare non più solo avanti.
Egli corre e corre
dietro ai suoi briganti
e non si ferma, no,
non si ferma perché il loro odore
è come cibo per maiali,
e i cavalli hanno imparato
ad apprezzare
non solo l’erba e il fieno dei campi,
e corrono e corrono
come cinghiali brutalizzati
in mezzo ad una città
di topi da fogne
che fuggono per il terrore tenebroso
che ottunde e amplifica
i latrati dei cani.
Vorrei, oh, quanto vorrei
accordare un po’ del mio lamento
per le viottole e le piazze
ormai macchiate
dall’altero sangue della menzogna
che si è impadronito dei somari.
E i somari hanno lasciato le loro stalle,
come stalloni hanno rivendicato
la loro nuova identità malata, perversa,
e dimentichi del loro carico da soma
si sono lanciati e rilanciati
nella corsa più spudorata
e nemmeno la falce,
nemmeno la zappa
potrà rimodellare la mia terra
ferita a coltellate
dagli zoccoli impazziti degli asini,
da quel branco imputridito di somari.
Ma no.
Io non tacerò
il mio cordoglio alla mangiatoia
ove ad abbeverarsi
non sono più il bue e l’asino,
no!
Ecco che quello che è sempre stato
rifugio per l’innocenza e la genuinità
è diventato un luogo di rapaci
ove troppe donne
hanno traviato i loro cuori
depravando quello dei fanciulli
messi a caligine delle foreste,
del povero popolo non più mio,
e la greppia è oramai
armamento perfino per i pastori
che seguono il tintinnio
degli zoccoli irrequieti,
fascino melodioso
che asconde la via denudata della fossa,
della fossa più profonda.
E povere voi, nazioni, ohimè,
che avete posto a capo del vostro popolo
dei fanciulli da bordello
da reprimere con il solo osso più volgare
dell’umano corpo divenuto,
questo,
tempio di un alimento
che la sete stende e la fame appaga
per la corruzione di tutti gli organi sovrani.
Chi potrà,
adesso che perfino gli armenti
si sono contaminati,
ebbene, chi potrà tosare i miei agnelli
e legare per il necessario i capri ed i somari,
i cavalli ed i maiali?
Io stesso,
sarò io stesso
a prendermi cura dei miei recinti,
delle mie stalle, delle mie greppie
e dei miei campi.
E quanto è vero
che io sono il pastore ed il padrone
comincerò da tutti i miei agnelli,
con lo spuntare della prima stella
(la più fredda, la più visibile),
la svestizione delle loro mascelle amate.
Poi li toserò, uno dopo l’altro,
per rimuovere le macchie
che si credevano sputo appestato,
lebbra indelebile,
e fascerò loro le ferite immerse
nel mio corso d’acqua più puro
dove lascerò annegare
il macellaio ed il mercenario
che hanno governato il mio gregge
con inettitudine ed infamia.
La stella dell’aurora.
Sarà lei,
con la sua luce inviolata e principe,
materna e feconda,
a consolare il mio popolo.
In quell’ora,
tempo che si fa breve
nelle tasche di quelle nazioni
che chiamano loro dio
il denaro da prostituzione,
renderò pane azzimo
ai dimenticati e agli oppressi,
ai poveri e ai depredati,
e sangue,
renderò sangue vivo e nero
ai loro aguzzini
che dovranno berne fino alla feccia,
come fosse metano per le loro viscere,
catrame per il loro fiato.
Manderò, ultimo,
il cibo dei miei angeli
a ristorare le bocche dissanguate
a causa della giustizia
e renderò la legge degli uomini
uno sberleffo all’occhiello
sulle giacche di coloro
che si avvalgono del potere
conquistato grazie alla meretrice
di ogni tempo,
compiendo atti e azioni abominevoli,
opere malvagie.
Nel transeunte secolo,
pronto per la mietitura,
maturo per essere falciato,
anche i topi,
i cani,
i somari,
i cavalli,
le serpi
ed i cinghiali
si prostreranno al mio nome,
cantato dalle milizie angeliche
schierate a miriadi di miriadi
per ogni mio cielo, e su tutti i miei campi,
prima che il tempo abbia i tempi
e luogo il nuovo.
(03/05/2022)