Guardando nel piatto del prossimo vi rimboccate le maniche per poter scavare nel fondo delle vostre iniquità e trarne un vantaggio fittizio disciplinato dall’empirica. Con destrezza futile, immediata, agitate il bicchiere della persuasione e del coraggio per ovviare alle fondamenta umane che vi rendono, più che ipocriti, dei vili, gli assassini della sedia accanto presso la tavola imbandita dai vostri stessi affari. Nessuno mai vi contesterà quel morso in più per la forchettata rubata, bestie sollecite a denigrare il povero, il misero, il giusto, col grugnito dalla oscena fiaba. Io vi dico che il piatto del prossimo è lo specchio dell’anima che non vi riguarda e le rimboccate maniche vostre non sono altro che i tentacoli estesi della vostra gola, lingue deturpate, avide di sapori esecrabili e irriconoscibili, talvolta, per la nettezza emerita dei vostri elucubranti cuori. Nemmeno io vi contesterò mai quel morso in più per la forchettata rubata: le bestie, da che il mondo fu mondo, restano bestie. Così, mi limiterò a spostare su quel tavolo, dove io sono uno dei tanti commensali, quei zozzi gomiti che state ancora una volta per poggiare sul pane, quello stesso pane che ieri e oggi avete dissacrato con quella solita bava scellerata colante dal viso amorfo del potere, quel potere scavato tra mandibole di pietra che lasciano digrignare nello sconcerto di un’epiglottide malata e denti e carie. Quel pane che, nonostante tanta lordura, riconoscerà vecchie le mani che lo spezzeranno in due, le stesse mani che ieri e oggi avete storpiato per paura della purezza, della giustizia, più che per fame, seppure ignobile. Poi. Poi scongiungerò l’occhio che vi rende simili dallo sguardo che vi rese uomini poiché quello che c’era da fare, accanto ai vostri padri, è già domani.
(28/12/2021)