Mi disse ancora: “figlio dell’uomo osserva come questa pianta che, da neutri colori posseduti, sfiorisce nel frangente di una stagione non ancora trascorsa, tantomeno arrivata. Dì, che te ne pare?” Preso dallo sconforto per l’improvviso gelo provato nelle mie ossa e dalla inattesa fragilità occorsami nel tentativo di rispondere, fui preda dell’angoscia, del dolore, e dell’inquietudine. Il tormento più grande che ebbe a rodere come di un tarlo il definitivo momento del respiro, del corpo, ormai mi pervadeva perfino l’animo, ed il mio stato di pace raggiunto in giorni dalla progressiva conoscenza del bene si tramutò in desiderio di morte, tanto apparentato ad essa mi sentivo, quasi come fosse un primordiale ed ultimo bisogno. Caddi bocconi, quasi privo di sensi e di sentimenti. Ero io, ma non sentivo più di appartenere a quella identità così intima e vicina all’aureo rivolo dell’amore. Straripai lacrime e in quelle lacrime arpeggiò il sangue di una generazione altera, sconosciuta, incredula, ribelle. Divenni lo sconforto di una parola che non trovava sua madre e ciononostante il mio stesso sconforto m’apparì come figlio d’orfano. Fu solo allora che sentii le mie ossa prolificare vita quando mi parve che la mia tremebonda carne avesse ritrovato la strada verso l’unione dei sensi. L’identità venne ridente nei miei occhi, ed io fui la pupilla nuova della mia rigenerata anima. La pace non era più una inciampata missione: ero io la mia pace. Vidi allora quella voce accostarsi nelle facoltà riemerse del mio cuore che, pulsando forte, mi proiettò nella fenomenalità dello Spirito. Mi disse allora: “figlio dell’uomo, a chi sarà dato di comprendere vedrà giungere la mia stagione. Viceversa, gli sarà tolto anche quello che un fiore astringe fedele, la spina.”
(27/10/2021)