Rafah

Non ho più nostalgia della vita. Lungo i pensieri di chi mi ha generato giaccio insepolta, avvolta in un lenzuolo già usato. Odo. Io ascolto il pianto disperato di mia madre, il lamento sconsolato di mio padre, la rabbia di chi mi sta intorno rade ogni mia perplessità sull’accadimento e dal mio volto emerge un livido pallore che incanta le mie labbra convulse. Eppure amavo. Oh, sì se amavo! Nei pensieri che mi sopravvivono io ancora esisto: quale dramma funesto, quale più vasta desolazione. Vado incontrando, così, tanti me, tanti noi, tanti loro che non si sono succeduti all’esistenza, in un viatico terribile, furibondo, dove la separazione, il distacco da membra, cuore, sentimenti, produce soltanto il diritto, già, il diritto alla testimonianza in un tempo altro e in una dimensione parallela a quella che credevo fosse la reale realtà. Che a credere, a introiettarmi nel futuro, a progettare gioie da condividere, forse mi resta di tutto ciò l’alone del dubbio, l’espulsione dal presente, la solitudine di un dolore che vuol certamente non trovare più riposo perché oramai divenuto incurabile. Non ho più nostalgia della vita. Sono caduta come una straniera tra stranieri, come un assassina tra gli assassini, la mia fine è stata peggiore di quella che l’uomo auspica per il suo nemico. E il sole di mezzogiorno non è più caldo per me e la notte è semplicemente tenebra, la stessa che i miei occhi lasciano evadere, uniti in questo mattino di maggio ancora da epilogare, quando ad incarnarsi tra il mio sguardo ghiacciato e la semprità dei cieli v’è soltanto cenere. Incupiscono i fiori, tremano i monti, si alzano i mari: oh, i miei figli! I miei figli. Oggi nemmeno loro possono piangere sul mio nome, uno dei tanti nomi calpestati sull’innocenza della propria terra.

(28/05/2024)