Sfiorirai come un soffione in arida steppa



Il giorno primo del ventitreesimo autunno della duemillesima età in Cristo Gesù il Signore dei Signori, l’Onnipotente, si è degnato di scorgere il suo occhio destro al di qua. Fulgono atmosfere per la folgore. E in quale cielo, e su quale terra oggi si potrà tacere? Poiché così dice l’Altissimo:

Ecco,
oramai la vite piantata già dissecca.
Giorni di caligine
dissiperanno i suoi pampini,
ogni suo ramoscello ancora prospero
io lascerò che sia troncato
non da mano d’uomo.
I suoi acini ancora acerbi
saranno divorati dagli avvoltoi
e dagli sciacalli,
dinanzi a me,
poiché la magnificenza
che ti era stata donata
l’hai nascosta agli occhi miei,
negandomi di goderne del frutto
seminato dal mio stesso amore.
E così tu cadrai
su di una terra bruciata,
ti dileguerai con la prima nebbia
della stagione mattutina
e sfiorirai come un soffione
in arida steppa,
o ingrata genitrice
di una stoltissima generazione.
Su di te getterò il disprezzo
dei più infami vignaiuoli.
Sì, verrai trebbiata e sarai vangata
per il tempo necessario
alla necessità dei tempi
e nessun ricordo sarà mai maturo
per l’aratore scelto
che ne vivrà il propenso.
Come una figlia tra le figlie
t’avevo scelto,
non per il tuo candore
né per la tua vergine età.
La compassione mi aveva spinto
verso quel putrido stagno.
Ti lavai con i miei baci,
ti asciugai con le mie carezze.
Eri già nella pubertà
quando l’adolescenza
ti scoprì ai miei occhi
e poco in là fosti già donna,
una splendida vigna ai miei occhi.
Quale canto
potrebbe parlare degnamente
del mio amore per te?
E quale madre
avrebbe fatto
ciò che io ho compiuto per te?
O quale uomo
avrebbe nutrito il suo stomaco
di vermi e di sangue?
Ancora le mie mani
piangono carezze,
e ancora le mie carezze
invano cercano le mie mani.
Non c’è più il mio diadema
ad adornare il tuo capo
ed è piovuto non su di me
il rosso albeggiare delle tue labbra.
Quanto, quanto ti sei fatta grande
agli occhi dei giganti.
Stolti,
hanno infierito su di te
con misera nefandezza
e superba arroganza.
Chi laverà il tuo corpo
dal grondante sangue
presso la putredine
dell’insepolto stagno?
E chi ti fascerà la pelle adesso,
chi ne avrà il coraggio?
Ed io, mi cercherò un’altra diletta?
Non canterò per essa, forse,
il mio canto di amore e di battaglia
presso tutti i tuoi nemici,
presso tutti i tuoi amanti?
La possederò verso i campi ameni
dove si sparge l’avariato frutto del tuo seno
e alzerò il calice
pregno del tuo mosto
con gli avvoltoi e gli sciacalli.
Ma nel mio nome,
quello stesso nome che a causa tua,
oggi, da una stolta generazione
è disprezzato,
io giuro che nessuno
potrà farti ancora del male
quando il tempo necessario
alla necessità dei tempi
sarà trascorso sul tuo ultimo autunno.
Come un soffione in arida steppa
tu ti sperderai,
sfiorendo al primo bacio di vento
e non per mano d’uomo.
Pianterò ancora una volta
la mia vigna.
Non la darò a nessuno
eccetto che a me
che ne sono il padre e il marito,
il proprietario e l’erede.
A lei di fianco
lascerò giacerne una
altrettanto bella, folta, fiorente.
Essa mi donerà un vino buono
che stordirà quei paesi e quei popoli
che hanno alzato
il calice più feroce e ignominioso
contro di me: la sua vendemmia germoglierà
e non sarà più dimenticata.
Io stesso berrò a quella coppa
il frutto della loro condanna e,
ricordandomi amore,
ogni essere umano da quel giorno
saprà che io, io solo, sono il Signore,
nei cieli e sulla terra.
Porterò i miei figli e le mie figlie
come un pastore pasce i suoi agnelli
e prendendomi cura di tutti li guiderò,
ineffabilmente,
verso i pascoli ubertosi
della eterna vita.

(21/09/2023)