Sul monte dei verdetti



Nel terzo mese, il ventisettesimo giorno del mese, del ventiquattresimo anno della duemillesima età, alla prima ora di una storia già scritta, la parola del Re, il cui nome è Dio, è scesa su di me in questi termini:

Chissà che tra le tue rovine
possa l’uomo scorgere ancora un fiore.
Ma la tua devastazione è al culmine,
come quando l’ubriaco beve
e non si accorge se è giorno o notte,
se è tempo di vegliare o di riposare:
e intanto beve ancora, fino al collasso.
E chi ti spoglia con barbarie
nella tua intimità è la diplomazia,
figliastra della zizzania.
Questo è ciò che a troppi sfugge
e che a tanti nemmeno importa.
Se pure in cuor tuo
ti decidessi di muovere i primi passi
verso i luminosi sentieri della pace
nessuno, oggi, ti verrebbe incontro,
anzi.
Vogliono la guerra.
E a qualsiasi costo la desiderano,
per soddisfare i loro infami interessi.
Figlia di ciò che sei diventata,
la desolazione è il tuo cibo quotidiano
così come il lamento delle tue creature
è divenuto il suono a te più vicino
e caro.
Come hai abbassato nella terra il tuo capo,
quella terra oggetto di tanti brogli politici
dove la mediazione più incline alla superbia
ti ha depauperato perfino
dei tuoi legami più sacri.
Hai deciso di mostrare il tuo dolore
vestendoti di sacco e leccando cenere,
quella cenere che è membra delle tue viscere.
Io so del dolore
che solo a te appartiene.
Cimiteri di parole crescono tra le labbra
di chi si dice tuo alleato.
E si fingono falsi pastori
di un gregge che non più esiste,
poiché è stato in larga parte trucidato.
Ma l’eccidio più grande
non è ancora cominciato.
Eppure basterebbe
la volontà di incontrarsi
con umile cuore
per allontanare ciò che ormai
non è procrastinabile.
Ed è anche per questo motivo
che la tua desolazione non avrà fine
e il tuo lamento non troverà riparo.
Tu sei responsabile quanto i tuoi avversari,
oppositori, oppressori, aguzzini,
ingannatori,
poiché in tal modo
ti sei dimostrata nemica del tuo popolo
prima che di te stessa.

Ma ecco.

Così dice l’Altissimo, il Signore dei Signori, l’Eterno e l’Onnipotente:

Io aggiungo alle tue ore rovesciate
giorni di tripudio e notti di sfacelo.
Vedrai la morte fuggire via
dinanzi ai tuoi pensieri
perché questi
saranno destinati alla perdizione.
Non cullerai sulle tue gambe
nessun figlio più,
poiché le tue gambe
saranno feritoie non più nascoste
e verranno ricordate
come simbolo evidente
della tua prostituzione.
Quando cesserà
il mio sdegno verso di te,
verso la tua propaggine incestuosa,
i popoli si batteranno per me il petto
poiché comprenderanno
che io sono il Signore, unico Dio.
Tardi!
L’abominio sollevato fino ai miei occhi,
i ripetuti genocidi commessi,
hanno colmato ogni misura.
In verità ho già inviato i miei angeli
a misurare, a pesare, a livellare la terra,
le acque e quanto esse contengono.
L’umanità diverrà come un uomo
che dalla terra viene immerso
nelle più trucide acque.
Queste inizialmente si ritireranno
fino al suo polpaccio
e lo morderanno a ripetizione
finché l’acqua non gli serrerà
dapprima i fianchi e infine la gola.
Sarà come un sogno, un vasto e,
al tempo, breve sogno.
L’umanità cercherà di oltrepassare
a guado il terrore,
con l’ausilio delle forze
che ha a disposizione,
ma non vi riuscirà.
Impetuose le acque la travolgeranno
e nell’impeto della lotta
contro il tempo
comprenderà che è caduta nella trappola
dell’ipotermia della sua medesima,
indegna mente.
Al risveglio l’umanità stessa comparirà
a mio cospetto
sul monte dei verdetti,
chi per una risoluzione di condanna
chi per una condizione
di beatitudine eterna.
Il velo del cielo si strapperà in due
alla mia presenza
e la mia voce provocherà
compassione e misericordia.
E ancora, inquietudine e tormento.
Quando tutto questo avverrà
molti avranno cimiteri di silenzi
tra gli occhi
e mondi estinti sulle labbra.
Invano!
Così come invano ti sei affaticata.
Hai dimenticato il mio nome,
il tuo primo amore, e la tua casa,
la terra è andata perduta
e tra le tue rovine,
tra le tue rovine chissà che l’uomo
possa scorgere ancora un fiore.

(27/03/2024)