Notte cadde
e nella sua effimera gola
nauseai l’anno in cui
per tutto aver veduto,
e non assorbito,
la coscienza breve non tacque.
Su, mi fu detto.
Mangia ancora,
mangia e vomita
sugli atrii a me più non sacri
poiché come il rivolo di sangue
che ancor ti corre in occhio
per l’abbondante carestia
di affetti a me sempre eguali
così sarai un segno per coloro
che non hanno prodotto
nel mio nome
pur potendo disseminare
nei miei intenti
il grano e non la zizzania.
E l’occhio mio
meno debole
rigettò sangue e acqua,
mentre dalle mie orecchie
si levò un canto da soma
che benediceva i futuri lamenti,
i predetti pianti
e gli avveniristici guai.
Il mio viso divenne,
in un breve istante,
il boccheggiare della peste
nel cadavere di un sospiro rinsavito
e non più moribondo.
Mi fu detto:
su, non temere il dardo
che sta per scuotere i tuoi denti
frangendosi nelle tue mandibole
mai scarne
poiché come l’angoscia
che sta predando la tua lingua
non tornerà al suo funesto focolare
prima di aver domato
e gengive e palato
così farò con coloro
che hanno dimenticato
il volto del dolore
nel volto dei loro stessi volti,
anziani e infantili,
infantili od anziani.
Cani.
Come potrei dire ad una bestia
tu sei figlio della peste
che colpirà il mio popolo,
il mio amato frutto di una terra che non c’è più?
O forse dovrei
ben meglio addurre:
cani.
Come potrei dire ad una bestia
tu sei figlio della peste
che colpirà il frutto amato,
la mia terra, di un popolo che non è più?
Io crebbi
di lì a poco l’orgoglio,
la vanagloria, l’avidità,
e ogni umano onore,
o viottolo inimicato
di tutti gli errori,
nel ventre disgustato dal verme
che mi corrodeva il viso,
quel ventre suscitato dalla morte
a poco a poco
per la gaudente prostituta,
la cataratta dei miei pianti,
la nemica dei miei lamenti,
la matrigna dei loro guai.
Non ebbi alternative alla mia sete.
Una sete soprattutto umana.
Mi fu detto allora,
e mi fu ridetto ancora:
bevi,
tieniti stretto
all’interno ed all’esterno
della tua urina bollente
e non aver paura delle tenebre
che d’intorno ti intimideranno
poiché ho comandato io ad esse
di serrarti i fianchi,
di stringerti le ginocchia,
di schiuderti le labbra.
Piansi zolfo inacidito,
le mie guance lentamente
andarono guarendo,
le mie labbra indossarono,
improvvise,
un sorriso che non credevo
potesse appartenermi.
La peste non era mai stata la peste
eppure,
nell’ascolto che io ebbi a vivere
di mio Padre,
credetti di comprendere
che ogni uomo
non è che il risultato di una bestia
e che questa non è altro che
istinto innato del suo bisogno
e che quest’ultimo
si confà perfettamente
alla mente malata
dei più feroci inganni
di una storia che ci vorrebbe
suo popolo di schiavi.
Mi fu detto ancora:
tu sei mio lenzuolo e mia carne.
Riposa, ora. Dormi e riposa.
In mezzo ad una generazione
dal non astruso linguaggio
ti ho desiderato
eppure non ti ascolteranno.
Io non avrò riguardo alcuno
per essa
poiché hanno tutto compreso
nel furioso linguaggio
che meglio gli appartiene.
Così, dormendo,
mi ritrovai,
improvviso,
nelle gaudiose, stupenti, viscere aurorali.
Nei lenzuoli dell’appartenenza
posi lo sguardo della vita
nel mio rinnovato riposo
e alacremente amai.
(02/08/2022)