Mi trovavo presso le ore dei mercanti di cipressi e di maiali e, contristato nell’animo per le numerose percosse subite dai rami robusti a favore delle carrube, stesi le mie membra sulle rive asciutte di una brezza passeggera dalla quale udii somme di nomi, tra cui il mio, echeggiare, verso le prospettiche vette dello sconforto e della solitudine, l’intera costituzione della paura. Ebbi fame di silenzio e ne mangiai nei prati di una sofferenza sconosciuta, postera e appartenente ad una forma di rifugio dall’aspetto umano. E il dialogo corse verso di me, improvvise sensazioni mai vissute divennero memorie di carne quando diedi la sostanza del mio stupore all’estasi natìa. Ne mangiai la parte acerba della magra perplessità in due tempi genuini. Mi assopii al secolo nella veglia dei miei anni più felini, cavalcando strapiombi di millenni sulle agilità del complesso e dell’esatto. L’universalità della scienza ebbe sete del mio primo ed ultimo volere. Ne bevve l’anemica fiamma e la luce divenne, con l’aiuto della brezza sulla quale mi ero steso, conoscenza e rivelazione. E settanta maiali, in quel migrato istante, si gettarono da sospesi rami allevati da sette ore appena distaccatesi dalla mandria sana dei cipressi per rovinare tra le somme dei nomi dal numero codificato tra cui v’era anche il mio. Fissai la promessa parola, mia compagna, e da un cielo incolore appresi la costituzione di un coro antico di cui ero io il cromosoma principale. E bianche voci crebbero nella settimana del mio petto colmo di verginità e di latte. Ne bevvero sino a quando il silenzio ebbe ad esultare dalla mia gola per opera del mio spirito il quale divenne figlio di mio Padre. Avanzai a mani giunte nel canto di mia Madre. Questo io vidi. E non mi fu computato come atto contrario.
(11/11/2021)